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LA ROMA DEL BELLI

UNA PASSEGGIATA NEI LUOGHI

DOVE HA VISSUTO IL PIU’ GRANDE POETA DI ROMA

 

INTRODUZIONE

Nel corso della sua vita Giuseppe Gioachino Belli ha dovuto cambiare casa molte volte, la sua famiglia di origine non aveva immobili di proprietà, lui come tutti i romani nell’Ottocento vivevano in case in affitto e la coabitazione era molto diffusa, quando una giovane coppia si sposava andava a convivere con i genitori dell’uno o dell’altra. Con una famiglia vivevano anche zitelle, anziani genitori, nipoti orfani; quando le condizioni lo permettevano anche i servitori con i loro parenti. In casa si stava solo per il pasto e per dormire, la vita si svolgeva all’aperto. La Roma del Belli aveva 200.000 abitanti, la metà di questi lavorava in campagna, anzi nella stessa città c’erano stalle, fienili, larghe aree urbane, all’interno delle mura Aureliane, non erano edificate, erano orti, vigne, uliveti, basti pensare al colle Esquilino, al Celio e all’Aventino che avevano scarse abitazioni o signorili o edifici a uso agricolo. Chi lavorava in campagna stava tutto il giorno fuori casa.

 

Belli nasce il in via dei Redentoristi il 7 settembre 1791, qui vive fino all’età di sette anni quando i genitori si trasferiscono prima a Napoli per sfuggire all’occupazione francese, poi a Civitavecchia dove il padre aveva ricevuto un buon incarico dal governo pontificio. Con la morte del padre a causa del tifo, Gioacchino va ad abitare in via del Corso 391 fino alla morte della madre nel 1807. Con il fratello e la sorella trova ospitalità presso lo zio paterno, Vincenzo, in piazza San Lorenzo in Lucina 35, quasi subito si trasferiscono presso una zia paterna in via della Fossa 2 (piazza del Fico). Morto il fratello ed entrata in convento la sorella, per intercessione di monsignor Lodovico Micara, ottiene una stanza nel convento dei Cappuccini di piazza Barberini (oggi via Veneto). Verso la metà del 1810 il diciannovenne Belli va ad abitare nel palazzetto del principe Poniatowski, come segretario, in via Mario dei Fiori. Ci resta quasi due anni e torna ad abitare nel convento dei Cappuccini trasformato in caserma dai francesi. Nel 1814 viene ospitato dall’avvocato Ricci nel palazzo Sora, nella piazza omonima oggi scomparsa per la costruzione di corso Vittorio. Nel giugno 1815 si trasferisce in un appartamento di via Capo di Ferro 28 presso la zia Teresa. Finalmente il 13 settembre 1815 sposa la contessa Maria Conti, gli sposi vanno ad abitare al secondo piano di palazzo Poli con ingresso da piazza Poli 91 (fontana di Trevi). Qui vive quasi venti anni, sono i migliori, ottiene un buon lavoro governativo per interessamento del cardinal Consalvi, si dedica ai suoi interessi letterari (scrive qui la maggior parte dei sonetti) e ai viaggi (Venezia, Napoli, Milano). Nel 1837 la morte della moglie lo riporta in una situazione economica difficile con debiti anche perché era stato collocato a riposo dal suo ufficio, va ad abitare presso parenti materni in via Monte della Farina 18, al primo piano di palazzo Balestra, anch’esso scomparso. In questa casa rimane ben 12 anni, finché nel 1849 va a vivere con il figlio Ciro e la nuora Cristina Ferretti in via dei Cesarini 77 dove morirà il 21 dicembre 1863, una lapide lo ricorda al civico 37.

 

VIA DEI REDENTORISTI

Qui nacque Giuseppe Gioachino Belli il 7 settembre 1791 da Gaudenzio e Luigia Mazio, in una casa ad angolo con via Monterone, qui visse fino al 28 dicembre 1798 quando con i genitori si trasferì a Napoli.

 

PIAZZA SAN LORENZO IN LUCINA

Al civico 35, qui orfano di padre e madre va a vivere con presso lo zio paterno Vincenzo in un elegante caseggiato.

 

IN VIA VENETO

Per intercessione di Lodovico Micara ottiene una stanza presso il convento dei Cappuccini, qui vive da solo perché il fratello è morto e la sorella entra in convento.

 

PIAZZA POLI

Qui abita con la moglie Maria Conti, una vedova sposata per interesse nella casa dei suoceri. Da lei ebbe il figlio Ciro. Qui vive 20 anni di tranquillità che gli permetteranno di dedicarsi agli studi letterari (in questi anni scrive la maggior parte dei suoi sonetti) e ai viaggi (Venezia, Napoli, Firenze e Milano). Questo periodo si conclude con la morte della moglie nel 1837. L’ala del palazzo nel quale visse è stato demolito per l’apertura di via del Tritone.

 

VIA CESARINI

Qui al civico 77, visse ospite del figlio Ciro e la nuora Cristina fino alla morte. Il palazzetto è stato demolito per la costruzione di Corso Vittorio. In questo periodo ci fu la Repubblica Romana del 1849, in quegli anni rimase un difensore del potere temporale dei papi.

 

CRITICA

E’ il grande cantore di Roma, nei suoi 2279 sonetti viene tracciato un affresco della società romana, il poeta mette spietatamente in luce la decadenza civile della città e del potere politico - religioso che la regge. L’immagine che ci offre di Roma è una denuncia senza appello del sistema che ha ridotto a una “fanga” la città eterna. La colpa è del “Papagno” e dei suoi “Torzi de mela”, il papa e i cardinali “ladri – cani”. L’indignazione verso il potere dispotico di Gregorio XVI, il sovrano dal potere illimitato, che “a ggenio suo po’ llegà e ssciojje”, si traduce nella rassegnazione del popolo che fatalisticamente accetta perché “Accussì va er monno”. In anni di lotte per il Risorgimento, nessuna speranza ripone di un cambiamento. Prima di morire affida i monoscritti dei sonetti a monsignor Vincenzo Tizzani perché li bruci, invece questi li consegna e dopo la morte del poeta li affida al figlio Ciro. E’ sepolto al Verano.

Quando il poeta era ancora in vita furono stampati solo 23 sonetti (e solo uno con il suo assenso), il figlio ne pubblicò una scelta di 786 nel 1866, in una edizione purgata. Solo nel 1952 si avrà un’edizione integrale dei sonetti basata sui manoscritti originali.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Edoardo Ripari, Giuseppe Gioachino Belli. Un ritratto. ed. Liguori, 2008

Marcello Teodonio, Vita di Belli, ed. Laterza, 1993.

Giuseppe Gioachino Belli, Sonetti, a cura di Giorgio Vigolo, ed. Mondadori, 1978.

Giuseppe Gioachino Belli, I sonetti, a cura di P. Gibellini, L. Felici e E. Ripari, ed Einaudi.

It.wikipedia.org alla voce Belli.

Treccani.it alla voce Belli.

Poesieromanesche.altervista.org

 

 

 

Piero Tucci

5.12.20

Ultima revisione del testo 2.1.21

 

 

Er giorno der Giudizzio

Cuattro anigoloni co le tromme in bocca

Se metteranno uno pe cantone

A ssonà: poi co tttanto de voscione

Cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.

 

Allora vierà ssù una filastrocca

De schertri da la terra a ppecorone,

pe rripijjà ffigra de perzone

come purcini attorno de la bbiocca1.

 

E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,

che ne farà du’ parti, bbianca e nnera:

una pe annà in cantna, una sur tetto.

 

All’urtimo usscirà ‘na sonajjera

D’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,

smorezeranno li lumi, e bbona sera.

 

 

Li penzieri dell’omo

Er chierichetto, appena atttunzurato,

penza a ordinarre prete, si ha cervello:

er prete penza a ddiventà pprelato;

e ‘r prelato, se sa, ppensa ar cappello2.

 

Er cardianle, si ttu vvoi sapello,

penza ggnissempre d’arivà ar papato;

e ddar su’ canto er Papa, poverello!

Penza a ggode la pacchia c’ha trovato.

 

Su l’esempio de quelle perzoncine,

ggni dottore, o impiegato, o mmilitare,

penza a su’ mesate e a le propine3.

 

Chi ppianta l’arbero, penza a lifrutti.

Cqua inzomma, pe rristriggneve l’affare,

oggnuno penza a ssé, Ddio penza a tutti.

 

 

 

Er confessore

“Padre”. “Dite il confietor”. “L’ho detto”.

“L’atto di contrizione?”. “Ggià l’ho fatto”.

“Avanti dunque”. “Ho detto cazzomatto4

A mi marito, e jj’ho arzato un grossetto5”.

 

“Poi?”. “Pe una pila che mme rçppe er gatto

Je disse for de mé: Ssì maledetto,

e è ccratura de Ddio!”. “C’è altro?”, “Tratto

un giuvenotto e cce so ita a lletto”.

 

“ E llì ccosa è successo?”, “Un po’ de tutto”.

“Cioè? Sempre m’immagino, pel dritto”.

“Puro a rriverzo…”. “Oh che peccato brutto!

 

Dunque , in causa di questo giovanotto,

tornate, figlia, cor cuore trafitto,

domani, a casa mia, verso le otto”.

 

La bbona famijja

Mi’ nonna a un’or de notte che vviè Ttata6

Se leva da filà ppovera vecchia,

attizza un carboncello, sciapparechia,

e mmanggnamo du’ fronne d’inzalata.

 

Quarche vvorta se famo una frittata,

che ssi la metti ar lume sce se specchia,

come fussi a ttraverszo d’un’orecchia:

quattro nosce, e la scena è tterminata.

 

Poi ner mentre ch’io Tata e Ccrementina

Seguitamo un par d’ora de sgoccetto7,

lei sparecchia e arissetta la cuscina.

 

E appena visto er fonno ar bucaletto,

‘na pisciatina, ‘na sarvereggina,

e, in zanta pasce, sce n’annamo a letto.

 

 

 

L’incrinnazzione

Sèntime: doppo er Papa e ddoppo Iddio

Cquer che mme sta ppiù a ccore, Antonio, è er pelo:

per cquesto cqua nun so nnegatte

ch’io rinegheria la lusce del Vangelo.

E ssi dde donne, corpo d’un giudio!

N’avessi cuante stelle che ssò in celo,

bbasta fussino bbelle, Antonio mio,

le voria fa restà tutte de ggelo8.

Trattanto, o per amore, o per inganno,

de quelle c’ho scopato, e ttutte bbelle,

ecco er conto che ffo ssimo a cquest’anno:

trentasei maritate, otto zitelle,

diesci vedove: e ll’antre che vvieranno

stanno in mente de Ddio: chi ppò sapelle?

 

 

 

 

 

1 Biocca = chioccia.

2 Cappello=cardinalizio

3 Mesate, propine= mesate, onorari.

4 Cazzomatto= cretino, parolaccia

5 Grassetto=moneta di scarso valore.

6 Tata= papà

7 Sgoccetto – bucaletto = a bere un po’ di vino - boccale

8 Far restare di gelo=ammaliare, innamorare.