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IN OCCASIONE DEL QUADRICENTENARIO DELLA MORTE DI SHAKESPEARE (1616-2016) RITORNIAMO SUI LUOGHI DI ROMA CHE HANNO ISPIRATO IL GRANDE SCRITTORE INGLESE

 

INTRODUZIONE

     La Roma antica rappresenta un riferimento costante nell’opera di Shakepeare, non solo come luogo geografico o storico, ma più in generale come  palcoscenico del mondo. Roma è serbatoio molteplice e universale di temi, figurazioni, forme di governo, testi, valori, segni che abitano l’immaginario shakesperariano. Roma è insieme modello da emulare e contrastare, per tutti i valori che la sua storia ha saputo esprimere.

 

William Shakespeare è nato a Stratford upon Avon il 23 aprile 1564 ed è morto nella stessa località il 23 aprile 1616. Drammaturgo e poeta è considerato come il più importante scrittore in lingua inglese e il più eminente drammaturgo della cultura occidentale.

     E’ considerato il poeta più rappresentativo del popolo inglese e soprannominato il Bardo o il Cigno dell’Avon; delle sue opere ci sono pervenuti 37 testi teatrali, 154 sonetti e una serie di altri poemi. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue del mondo e sono le più rappresentate sui teatri di tutto il mondo. Molte delle sue espressioni linguistiche sono entrate nell’inglese quotidiano.

     Shakespeare fu capace di eccellere sia nella tragedia che nella commedia, seppe unire il gusto popolare della sua epoca con una complessa caratterizzazione dei personaggi e una notevole profondità psicologica.

     La scarsità dei documenti sulla sua vita privata ha fatto sorgere numerose congetture sul suo aspetto fisico, la sua sessualità, il suo credo religioso e persino sull’attribuzione delle sue opere.

 

 

TEATRO GLOBE

     Nasce da una straordinaria intuizione di Gigi Proietti e all'impegno del sindaco Walter Veltroni. E' stato costruito nel 2003 a imitazione dell'omonimo teatro elisabettiano londinese che si inaugurò a Shoreditch nel 1576. La sua realizzazione è stata possibile grazie al finanziamento della famiglia Toti imprenditrice nell'edilizia (Lamaro Appalti, ha finanziato anche il Mart di Rovereto e il restauro della galleria Colonna Alberto Sordi), il teatro è infatti intitolato alla memoria di Silvano Toti. La direzione artistica è affidata a Gigi Proietti. Si tratta di un teatro all'aperto, costruito in soli tre mesi e inaugurato nell'ottobre 2003, completamente in legno, realizzato con ben 600 mc di rovere delle foreste del Nord della Francia (Ardenne), la sua stagione è esclusivamente estiva. Il teatro ha una capienza di 1.250 posti di cui 420, come da tradizione elisabettiana, sono i posti in piedi della platea. Seguono tre ordini di balconate. L’altezza massima del teatro è di dieci metri, con un diametro interno di 23 metri ed esterno di 33 metri. La circonferenza esterna è di cento metri.  L'inaugurazione è avvenuta nel centenario del passaggio della villa alla proprietà comunale.

     Nel teatro elisabettiano la scenografia era semplicissima, tutto si basava sulla recitazione e sulla mimica. Il pubblico seguiva l’azione, e completava le scene con l’immaginazione. Quando la scenografia si fece più importante, le scene vennero costituite da teloni, architetture e fianchi di tela armati, soffitti o arie. I costumi divennero fastosi e ricchi di stoffe pregiate e si ispirarono ai vestiti contemporanei, alla fantasia e al costume storico. Ogni personaggio aveva nel suo costume delle caratteristiche il più possibili affini a quelle del personaggio che doveva interpretare.

     La stagione del 2016 si è conclusa con “La tempesta”, nei giorni 5-9 ottobre, spettacolo alle ore 20,45, domenica alle ore 18, testo in lingua originale.

 

     Diamo ora la parola a Shakespeare con tre sonetti d’amore che sono dei classici. Il primo sonetto non è uno dei più noti ma uno dei più vibranti: ad una prima parte in cui esalta la bellezza della persona a cui si rivolge e la necessità di far continuare questa bellezza nel mondo, si contrappone una seconda parte in cui il poeta rimprovera il depositario di tanta bellezza che si concentra solo su di essa senza procreare. Il compito di chi porta bellezza, invece, è far si che essa illumini il mondo per il maggior tempo possibile.

 

Sonetto 1

Alle meraviglie del creato noi chiediam progenie

 

Alle meraviglie del creato noi chiediam progenie

Perché mai si estingua la rosa di bellezza,

e quando ormai sfiorita un dì dovrà cadere,

possa un suo germoglio continuarne la memoria:

ma tu, solo devoto ai tuoi splendenti occhi,

bruci te stesso per mutrir la fiamma di tua luce

creando miseria là dove c’è ricchezza,

tu nemico tuo, troppo crudele verso il tuo dolce io.

Ora che del mondo sei tu il fresco fiore

E l’unico araldo di vibrante primavera,

nel tuo stesso germoglio soffochi il tuo seme

e giovane spilorcio, nell’egoismo ti distruggi.

Abbi pietà del mondo o diverrai talmente ingordo

Da divorar con la tua morte quanto a lui dovuto.

 

Il prossimo sonetto, il 18, è uno dei più celebri, non a caso si ritrova spesso citato in film e canzoni , di recente è stato recitato da Michelle Williams durante il funerale del padre della figlia.

 

Sonetto 18

Posso paragonarti ad un giorno d’estate?

 

Posso paragonarti ad un giorno d’estate?

Tu sei più amabile e più tranquillo.

Venti forti scuotono i teneri germogli di maggio,

e il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine.

Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo,

E spesso la sua pelle dorata s’oscura;

ed ogni cosa bella la bellezza talora declina,

spogliata per caso o per il mutevole corso della natura.

Ma la tua eterna estate non dovrà svanire,

Né perder la bellezza che possiedi,

Né dovrà la morte farsi vanto che vaghi nella sua ombra,

quando in eterni versi al tempo tu crescerai:

finchè uomini respireranno o occhi potran vedere,

queste parole vivranno e daranno vita a te.

 

 

Nel sonetto 73, “In me tu vedi quel periodo dell’anno”, il tema trattato è quello della vecchiaia. Uno dei pregi di Shakespeare è quello di trattare le diverse facce dell’amore, dal trasporto emotivo, alla rabbia, dalle esortazioni agli inviti.

 

Sonetto 73

In me tu vedi quel periodo dell’anno

 

In me tu vedi quel periodo dell’anno

Quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono

Su quei rami che fremon contro il freddo,

nudi archi in rovina ove briosi canrarono gli uccelli.

In me tu vedi il crepuscolo di un giorno,

che dopo il tramonto svanisce all’occidente,

e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,

ombra di quella vita che tutto confina in pace.

In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco,

che si estingue fra le ceneri della sua gioventù

come in un letto di morte su cui dovrà spirare,

consunto da cuiò che fu il suo nutrimento.

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce,

per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

 

Da “Giulietta e Romeo”:

 

Non avessi occhi ma soltanto orecchie,

le mie orecchie amerebbero

quella bellezza interiore e invisibile;

o fossi io sordo, il tuo aspetto esteriore farebbe muovere

ogni parte in me che fosse sensibile;

e senz’occhi e senza orecchie senza udire e senza vedere,

mi innamorerei soltanto toccandoti.

Se del senso del tatto fossi privato,

e non potessi ne vedere, né udire, né toccare,

e se nient’altro mi restasse che il senso dell’olfatto,

ancora il mio amore per te sarebbe tanto,

perché da ogni modanatura del tuo viso

un respiro profumato emana,

che genera amore solo odorandolo.

 

VIA DEGLI ORTI DI CESARE

TRAGEDIA: ANTONIO E CLEOPATRA

     In questo luogo erano gli orti di Cesare, un lussuoso giardino dove Cesare ospitò, quando giunse a Roma, la regina dell’Egitto Cleopatra. Per volere testamentario gli orti furono donati al popolo romano insieme al tempio della Fortuna che qui sorgeva.

     Il luogo si presta a ricordare la tragedia in cinque atti “Antonio e Cleopatra” scritta nel 1607 e stampata nel 1623. La tragedia segue la relazione tra Cleopatra e Marco Antonio dalla guerra contro i Parti fino al suicidio di Cleopatra. L’antagonista è Ottaviano, triumviro con Antonio e Lepido.

 

     La stazione di Roma Trastevere risale al 1910, ha sostituito la stazione di Porta Portese che era il capolinea della linea ferroviaria per Civitavecchia (1859).

 

    Antonio ha stretto un patto: il secondo triumvirato e si trova in Egitto perché innamorato di Cleopatra. Sesto Pompeo minaccia il triumvirato con una potente flotta con la quale controlla Sicilia e Sardegna. Per questo pericolo Antonio è costretto a tornare a Roma contro il parere di Cleopatra. Tornato a Roma Ottaviano convince Antonio a sposare sua sorella Ottavia per rinsaldare i legami tra i due. Quando Cleopatra viene a sapere del matrimonio è furiosa, ma le cortigiane l’assicurano che è brutta. Triumviri e Pompeo si accordano, può mantenere il controllo sulle due isole a patto che distrugga i pirati e invii un tributo in grano. Ma Ottaviano e Lepido rompono i patti e i combattimenti riprendono. Pompeo è furente, torna ad Alessandria incorona se stesso e Cleopatra imperatori di tutto l’Oriente. Intanto Ottaviano imprigiona Lepido, Antonio si sente tradito e minacciato da Ottaviano. Antonio si prepara a dare battaglia, Cleopatra gli assicura il sostegno della sua flotta ma, durante la battaglia navale di Azio, lei abbandona il campo con le sue sessanta navi, Antonio la insegue causando la disfatta, si vergogna di ciò che ha fatto ma pone l’amore al di sopra di ogni cosa dicendo: “Datemi un bacio, questo basta a compensarmi”. Ottaviano manda un messaggero con il quale chiede di consegnargli Antonio, lei ci pensa, questo fa infuriare il suo amato. Antonio si prepara alla battaglia di terra, Enobardo, il suo luogotenente lo abbandona e passa con il nemico. Invece di confiscargli i beni, glieli rende, al che Enobarbo si suicida. In battaglia, ancora una volta Cleopatra lo tradisce. Antonio decide di ucciderla, ma Cleopatra sparge la notizia che si è suicidata. Anche Antonio tenta il suicidio ma, si ferisce solamente, si trascina fino al mausoleo di Cleopatra dove muore tra le sue braccia. A questo punto Cleopatra rifiuta la proposta di resa di Ottaviano e si uccide con il veleno di un aspide, muore serena, pensando di rivedere Antonio nell’aldilà.

     Dall’incipit di Antonio e Cleopatra. Filone: Bah, mi pare che il nostro generale con questa sua amorosa infatuazione stia davvero passando la misura… quegli occhi che hanno sempre folgorato come di un Marte corazzato, su guerresche falangi, sono ora dimessi, in atto di servile devozione… verso Cleopatra. Quel suo cuore di grande condottiero… ha rinnegato ogni senso di ritegno, s’è ridotto ad un mantice, a un ventaglio per raffreddar gli ardori di una zingara.

     Trombe. Entrano Antonio e Cleopatra con le sue ancelle e con degli eunuchi che le fanno vento agitando grandi ventagli.

     Filone: Osserva bene Marcantonio e vedrai uno dei tre gran pilastri su cui si regge il mondo trasformato nel giullare d’una baldracca. Osservalo, mi darai ragione.

     Cleopatra rivolta ad Antonio: Se è vero amore, dimmi quant’è grande.

     Antonio: L’amore che si può quantificare è da elemosinanti.

     Cleopatra: I confin entro i quali essere amata voglio fissarli io.

     Antonio:Allora occorrerà che tu trovi un nuovo cielo ed una nuova terra.

 

 

PONTE SUBLICIO

TRAGEDIA: TITO ANDRONICO

     Affacciandosi dal ponte, e guardando a valle si vedono i resti del porto di Roma imperiale, l’emporium, qui vennero trasferite le strutture portuali di Roma nel II sec. a.C. Con l’aiuto della fantasia possiamo ambientare in questo luogo l’entrata a Roma dell’esercito di Tito Andronico e quindi l’inizio della tragedia che porta questo nome. Si tratta solo di una ricostruzione fantasiosa, non storica.

 

     Il ponte fu realizzato su progetto di un giovanissimo Marcello Piacentini e inaugurato nel 1918, il suo nome ricorda l’antico ponte che sorgeva poco a sud dell’attuale ponte Palatino, era in legno e venne costruito da Anco Marzio. Era così chiamato perché composto di sublicae, traversine di legno duro, rese stabili da chiodi di bronzo. Su questo ponte si svolse il gesto eroico di Orazio Coclite. L’imperatore Valentiniano lo fece ricostruire in pietra, ma la notizia non è certa. Guardando a valle, ma la sponda destra, si vedono i resti dell’Arsenale Pontificio. Guardando a monte si vede l’imponente edificio dell’Ospizio di San Michele a Ripa (struttura polifunzionale realizzata tra la fine del Seicento e il Settecento tra gli altri da Ferdinando Fuga[1] come orfanotrofio, ospizio, carcere minorile e femminile) e le rampe del porto di Ripa Grande. Sul lato opposto l’argine ha avuto una sistemazione monumentale nel 1926 ad opera di Vincenzo Fasolo.

 

     Tito Andronico è la prima tragedia di Shakespeare, è ripartita in cinque atti, composta tra il 1589 e il 1593. Narra la storia di un immaginario generale romano che si vuole vendicare di Tamora regina dei Goti. L’opera si rifà a Seneca e Ovidio, mantenendo del primo la struttura tragica e del secondo un linguaggio e un tono elegiaco che rimandano alle Metamorfosi.

 

     I atto. L’imperatore di Roma è morto, i suoi figli Saturnino e Bassiano litigano per il trono. La plebe sceglie come nuovo imperatore Tito Andronico, generale romano appena ritornato da una campagna militare di dieci anni. Tito ha con se la regina dei Goti Tamora con i figli e l’amante Aronne. Tito ritiene suo dovere religioso sacrificare il primo figlio di Tamora Alarbo in memoria dei caduti. Tamora supplica Tito non farlo, quando Alarbo viene ucciso lei giura vendetta.

     Tito rifiuta il trono, come segno di modestia, in favore di Saturnino, i due si accordano per un matrimonio tra Saturnino e la figlia di Tito, Lavinia. Ma Lavinia e Bassiano si erano sposati segretamente, quindi decidono di fuggire. Saturnino decide quindi di sposare Tamora, i due decidono di vendicarsi su Tito Andronico.

     II atto. I figli di Tamora uccidono Bassiano per far ricadere la colpa sui figli di Tito Andronico. Anche Lavinia viene torturata, violentata e le vengono mozzate mani e lingua.

     III atto. L’imperatore dice che risparmierà i prigionieri se uno di loro sacrificherà una mano. Tito si offre, gliela tagliano, proprio allora un messaggero gli consegna le teste mozzate dei suoi figli. Tito ordina all’unico figlio rimasto di fuggire da Roma e tornare con un esercito formato dai Goti da lui sconfitti. Tito impazzisce.

     IV atto. Lavinia, con un bastone, riesce a scrivere i nomi dei suoi assalitori. Tutti giurano vendetta. Tito si finge impazzito. Tamora partorisce un bambino di pelle scura, il padre è Aronne, ma viene uccisa, egli fugge con il bambino.

     Atto V. Lucio marcia su Roma, incontra Aronne che gli confessa tutte le atrocità commesse per salvarsi. In un banchetto Tito Andronico si presenta vestito da cuoco, invita tutti a mangiare a sazietà, nel pasticcio ci sono  i corpi di Chirone e Demetrio, figli di Tamora, dopo uccide anche Tamora. Saturnino uccide Tito, Lucio, il figlio di Tito Andronico, uccide Saturnino, Lucio è il nuovo imperatore

 

FORO DI CESARE

TRAGEDIA: GIULIO CESARE

     Questa tragedia venne scritta probabilmente nel 1599, è basata su eventi storici, parla della cospirazione e dell’assassinio del dictator della Repubblica Romana.

     Alcuni ritengono che il protagonista sia Cesare, causa di tutta l’azione e centro di ogni discussione. Altri, invece, ritengono che il protagonista sia Bruto per il dramma psicologico che vive tra onore, patriottismo e amicizia. Dopo aver ignorato l’avvertimento dell’indovino e le premonizioni della moglie Calpurnia, Cesare cade sotto i colpi dei congiurati, ultimo a colpirlo sarà Bruto al quale dice: “Tu quoque Brute!”, a queste parole Shakespeare aggiunge: “Allora cadi, o Cesare!”. Alcuni critici ritengono che la tragedia rifletta l’ansia che c’era nell’età elisabettiana, in quanto Elisabetta I si era rifiutata di nominare un successore. Questo faceva temere una guerra civile come a Roma.

     L’azione si svolge a Roma e nel finale in Grecia tra Sardi e Filippi. Bruto è figlio adottivo di Cesare, i suoi antenati sono celebri per aver cacciato da Roma Tarquinio il Superbo, per amore di libertà si unisce ad alcuni senatori tra cui Cassio, il loro scopo è uccidere Cesare per salvare la Repubblica.

     Cesare, tornato a Roma dall’Egitto, incontra un indovino che gli dice: “Guardati dalle idi di marzo”. Noncurante di tale avvertimento Cesare si reca al Senato proprio il 15 marzo, giorno delle idi, viene assassinato. Marco Antonio, con un celebre discorso, muove il popolo romano contro gli assassini di Cesare.

 

     Quello che segue è una semplice riduzione del discorso di Marco Antonio davanti al corpo di Cesare scritto da Shakespeare, non è il testo integrale della tragedia.

 

     Amici, romani, compatrioti, prestatemi orecchio, io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sepolto con le loro ossa, e così sia di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Col permesso di Bruto, perché Bruto è uomo d’onore, io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro, sembrò questo atto ambizioso di Cesare? Quando i poveri hanno pianto egli ha lacrimato, l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa, eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re e per tre volte la rifiutò, fu questo atto di ambizione?Non parlo no per smentire Bruto, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: cosa vi trattiene ora dal piangerlo? Scusatemi, il mio cuore giace là con Cesare e debbo tacere sinchè non ritorni a me.

     Pur ieri la parola di Cesare avrebbe potuto apporsi al mondo intero: ora giace là e nessuno gli rende onore. O signori, se io fossi disposto ad eccitarvi il cuore e la mente alla ribellione ed al furore, farei un torto a Bruto che è uomo d’onore, e non voglio fargli torto, piuttosto farò torto al defunto. Ma qui è una pergamena col sigillo di Cesare, l’ho trovata nel suo studio, è il suo testamento che, perdonatemi, non intendo leggere, altrimenti i popolani andrebbero a baciare le sue ferite, immergerebbero i loro lini nel sangue sacro di lui.

     La folla lo interrompe con grida: “Vogliamo udire il testamento, leggetelo!”. Antonio risponde: Non debbo leggerlo, non è bene che voi sappiate quanto Cesare vi amò, esso vi infiammerebbe, vi farebbe impazzire, è bene che non sappiate che siete i suoi eredi. Ancora grida della folla che vogliono sentire il testamento. Antonio ripete che teme di far torto agli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare. “Erano traditori, non uomini d’onore!”.

     Mi obbligate dunque a leggere il testamento. Ad ogni cittadino romano egli dà settantacique dramme, egli lascia tutti i suoi passeggi, le sue private pergole e gli orti nuovamente piantati, a voi e ai vostri eredi per sempre. I cittadini: Vendicheremo la sua morte! Bruceremo il suo corpo e con i tizzoni incendieremo le case dei traditori!!!

Mentre Bruto e Cassio si preparano alla guerra contro Marco Antonio e Ottaviano, lo spettro di Cesare appare in sogno a Bruto annunciandogli la sconfitta: “Ci rivedremo a Filippi”. La battaglia svolge a sfavore dei cospiratori, allora Bruto e Cassio decidono di suicidarsi piuttosto che essere fatti prigionieri.

     Nel finale si intravede la frattura tra Marco Antonio e Ottaviano, tema che sarà sviluppato nell’altra tragedia, Antonio e Cleopatra. La tragedia termina con L’orazione di Marco Antonio davanti alla salma di Bruto, ne loda l’onestà e lo discolpa  perché non uccise per odio, ma per amor di patria. Conclude con la bellissima frase: “La sua vita fu onesta e così piena delle sue qualità che la natura potrebbe alzarsi e dire all’universo: Questi era un uomo!”.

 

     Nel Foro di Cesare spicca il tempio di Venere Genitrice, promosso da Cesare prima della battaglia di Farsalo del 48 a.C. alla dea della quale la gens Giulia si vantava di discendere. In seguito gli venne collocata a fianco la basilica Argentaria, una sorta di borsa, lungo il clivo si succedono le tabernae. Il Foro di Cesare è stato riportato alla luce con gli scavi degli anni Trenta del Novecento.

 

 

ISOLA TIBERINA

TRAGEDIA: CORIOLANO

     Questa tragedia in cinque atti databile al 1607-08 è ispirata alla vita del leggendario condottiero romano Caio Marzio Coriolano così come viene descritta nelle Vite parallele di Plutarco e in Ab Urbe condita di Tito Livio.

Personaggi principali sono, oltre a Coriolano stesso: Tito Larzio comandante dei Volsci, Cominio, altro comandante dei Volsci, Menenio Agrippa, amico di Coriolano, Sicinio Veluto, tribuno della plebe, Giunio Bruto, tribuno della plebe, Volumnia, madre di Coriolano, Virgilia, moglie di Coriolano, Valeria sua amica, il piccolo Marzio, figlio di Coriolano e Virgilia.

     Tolstoj criticò il Coriolano perché lo accusò di disprezzare le classi popolari. Sulla sua figura si riflette invece la simpatia di Shakespeare per i personaggi sinceri e schietti. La tragedia di Coriolano è la tragedia di un uomo che non sa adattarsi alle coercizioni e alle ipocrisie della vita politica, la quale è sempre rappresentata dallo scrittore inglese come mera e spietata lotta per il potere fra individui.

 

     La tragedia è ambientata a Roma, poco dopo la cacciata dei re Etruschi della dinastia dei Tarquini. Per questo siamo sull’isola Tiberina perché era il punto di contatto con le terre in mano agli Etruschi.

 

     L’isola Tiberina, nata in modo alluvionale, è l’unica isola urbana del Tevere. La leggenda vuole che si sia formata dai covoni di grano mietuto a Campo Marzio di proprietà del re Tarquinio il Superbo al momento della rivolta. A metà del I secolo a.C. venne monumentalizzata in opera quadrata, insieme alla costruzione dei ponti Fabricio e Cestio, prendeva così la forma di una nave di cui oggi è visibile la prua con blocchi di travertino e alcune decorazioni raffiguranti Esculapio. Vi era al centro un obelisco simboleggiante un albero maestro. Una leggenda dice che alcuni saggi si erano recati nella città greca di Epidauro per consultare l’oracolo di Esculapio a causa di una grave pestilenza. Al momento della partenza un serpente, simbolo del dio, salì sulla nave e vi scese giunti all’isola tiberina, dove si stabilì. Sul luogo venne costruito un tempio ad Esculapio e la peste sparì. Il tempio si trovava dove oggi è la chiesa di San Bartolomeo. Nella parte ora occupate dall’ospedale Fatebenefratelli vi erano piccoli santuari: uno dedicato a Fauno e Veiove, uno dedicato a Iuppiter Iuralis (garante dei giuramenti) oggi chiesa di San Giovanni Calibita e uno dedicato a Semo Sancus di origine sabina. Altri culti sono attestati sull’isola.

     Sull’isola Tiberina si trova l’Ospedale San Giovanni di Dio e dei Fatebenefratelli, rifatto da Cesare Bazzani nel 1930. Tale antichissima istituzione continua la tradizione del luogo già dedicato a Esculapio. Sulla pittoresca piazzetta: guglia a quattro facce (ricorda il Concilio Vaticano I) e chiesa di San Bartolomeo all’Isola eretta alla fine del X secolo dall’imperatore Ottone III. Dopo la piena del 1557 fu restaurata nel 1624 da Orazio Torriani con la facciata barocca su due piani e a portico. Arretrato a sinistra il campanile romanico a trifore. L’interno è diviso in tre navate da 14 colonne di marmo antiche, sono presenti tre cappelle per lato. Dall’aprile del 2008 la chiesa, officiata dalla comunità di Sant’Egidio, ospita il “Memoriale dei Cristiani morti per la fede”. Gli altari laterali offrono testimonianze dei nuovi martiri. Tra questi il Messale di monsignor Oscar Romero, il pastorale di card. Ocampo ucciso dai narcotrafficanti, la Bibbia di Flribert Bwana Chui ucciso in Ruanda nel 2007, la stola di Andrè Jarlan cileno, il calice e la stola di don Andrea Santoro ucciso in Turchia nel 2006 a Trebisonda. Nel memoriale sono ricordati anche protestanti e ortodossi.

 

     Ponte Fabricio, detto comunemente “ponte dei Quattro Capi”, congiunge l’isola alla sponda sinistra del fiume dove si trova il ghetto (rione Sant’Angelo). Dopo il ponte Milvio è il più antico di Roma, essendo stato costruito nel 62 a. C. dal console Lucio Fabricio è giunto quasi intatto fino a noi. E’ formato da due ampie arcate di travertino, fra queste vi è un’arcata minori sopra il pilone centrale. L’intradosso è in peperino. Sulle due fronti grandi iscrizioni in bei caratteri, col nome del costruttore. Alla testata due erme marmoree quadrifronti.

 

     Ponte Cestio fu eretto nel 46 a. C. da Lucio Cestio[2], è a tre arcate, venne restaruato dagli imperatori Valente, Valentiniano e Graziano nel 370 e in parte notevole rifatto nel 1892. Sulla spalletta a monte iscrizione degli imperatori che lo restaurarono. Guardando a valle bella veduta verso il ponte Rotto e l’area archeologica della Bocca della Verità con il tempio della Fotuna Virile e Santa Maria in Cosmedin. Il ponte collega l’isola Tiberina con il rione Trastevere all’altezza di lungotevere degli Anguillare (Case dei Mattei).

 

 

 

     La città è in preda ad una sommossa dopo che le scorte di grano sono state negate al popolo. I rivoltosi sono adirati con Caio Marzio Coriolano, un valoroso generale, incolpato della sparizione delle scorte alimentari. Per Coriolano i plebei non meritano il grano perché non hanno servito l’esercito. Due tribuni della plebe denunciano personalmente Caio Mario che lascia Roma quando giunge la notizia che i Volsci sono pronti a dare battaglia. Il capo dei Volsci Tullo Aufidio è nemico giurato di Coriolano. Coriolano guida una sortita contro la città volsca di Corioli (presso Genzano) e sorprendentemente riesce a conquistarla, in segno di riconoscimento aggiunge il soprannome onorifico di Coriolano. La madre Volumnia lo incita a condidarsi console, viene eletto ma i tribuni della plebe lo contrastano e capeggiano una rivolta armata contro di lui. Coriolano critica duramente il concetto di governo di popolo. Permettere ai plebei di esercitare il potere è “come concedere ai corvi di prendere a beccate le aquile”. Per queste sue parole viene condannato come traditore e condannato all’esilio.

     Coriolano va dai Volsci, diventa loro capo e guida il loro esercito contro Roma. La madre Volumnia con la moglie e il figlio vanno incontro a Coriolano e lo dissuadono di attaccare Roma. Torna indietro e viene ucciso dai Volsci per tradimento.

 

 

BIBLIOGRAFIA

- AA.VV. Guida d’Italia, Roma, ed. Tci, 1993.

- AA.VV. Roma, libri per viaggiare, ed. Gallimard – Tci, 1994.

- AA.VV. I rioni e i quartieri di Roma, ed. Newton & Compton, 1989.

- AA.VV. Le strade di Roma, ed. Newton & Compton, 1990.

- Claudio Rendina (a cura di), Enciclopedia di Roma, ed. Newton & Compton, 2005.

- Paolo Bertinetti, Storia della letteratura inglese, Piccola Biblioteca Einaudi.

- K. Elam e L. M. Crisafulli, Manuale di letteratura e cultura inglese,

 

SITOGRAFIA

www.archeoroma.beniculturali.it (sito della sovrint. fondamentale per l'aspetto archeologico)

www.romasegreta.it (un almanacco generale su Roma, importante la sezione dei Rioni)

www.romasparita.eu (con bellissime foto d'epoca)

 

Tucci Piero

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21.6.16

 

 

 

 

 

 



[1] Ferdinando Fuga. (Firenze 1699-Roma 1781) fu architetto dei palazzi pontifici, a Roma realizzò la Manica Lunga al Quirinale, il palazzo della Consulta, la facciata di Santa Maria Maggiore e a Napoli l'Albergo dei Poveri e la chiesa dei Girolamini. Palazzo Ferrini Cini in piazza di Pietra. Ha parzialmente ricostruito il Triclinio Leoniano in piazza di Porta San Giovanni.

[2] Lucio Cestio. Non è quel Gaio Cestio che si fece costruire la Piramide presso porta San Paolo nel 18-12 a. C. , anche se qualcuno sostiene che siano la stessa persona.