ALTA MODA A ROMA

Made in Italy è il titolo di una serie tv ambientata nel mondo della moda, a Milano, nei primi anni Settanta, che racconta il passaggio dall’haute couture al prêt-à-porter. 
Made in Italy, oltre ad essere il titolo della serie è anche sinonimo immediato di qualità, traduzione in etichetta di valori e atmosfere italianissime. Nella serie, l’intuizione della capo servizio della rivista di moda inventata Appeal è quella di dare visibilità alla moda italiana e ai suoi (primi) stilisti, non sempre e ancora ai francesi – storce il naso ogni volta che le propongono l’ennesima copertina di Chanel o Saint Laurent.

Ma cosa succedeva, qualche decennio prima, a Roma? Non ci hanno ancora fatto una serie (speriamo di vederla presto) ma nasceva l’alta moda italiana. Anche in questo caso la dialettica con i francesi era accesa. Parigi dettava legge in fatto di stile ma negli anni Cinquanta, sui giornali italiani, iniziò la 
Guerra alla Senna, una ribellione alla dittatura stilistica francese, per proporre una propria visione di stile. Un indizio è il “vestito all’italiana” realizzato in velluto, l'unica stoffa prodotta nelle fabbriche di Genova e Vaprio, che celebrava la tradizione artigiana. Un altro indizio: l’italianizzazione del dizionario della moda - il tailleur diventa completo a giacca, il golf panciotto a maglia, pois pallini, paillettes pagliuzze, volants volanti (!).
Il centro di questa "rivolta di stile" era Roma.

La moda romana era (ed è, tutt’oggi) legata indissolubilmente alla scenografia, al cinema, era la Hollywood sul Tevere: la moda era lanciata nei film, le attrici erano le influencer di quel tempo.
La Mangano con la sua bellezza primitiva indossava cappelli di paglia e calze nere, la Lollo abiti sdruciti e aderenti, nastrini fra i capelli, la Loren cinture alte ballando il mambo.
Ogni stilista aveva le sue dive di riferimento. Quella delle Sorelle Fontana era Ava Gardner che vestiva Fontana nella vita privata come sul set. Per lei confezionarono il 
Pretino, un abito dalla linea talare, riprodotto da Piero Gherardi per Anita Ekberg in una scena de La Dolce Vita.
Schuberth, apprendista presso la sartoria Montorsi, nel 1938 aprì una modisteria al numero 145 di via Frattina, poi un atelier. I suoi abiti traboccavano di sfarzo e ricchezza, opulenza ottocentesca e glamour hollywoodiano.
Seguiva procedimenti originali - accostava spago e filo di seta, paglia e strass e dava alle sue creazioni nomi strani tipo “Schuberth ha sognato Chopin”, “La nonna aveva ragione”, “Estate al polo”.
Roberto Capucci faceva parte della generazione dei grandi sarti architetti con il suo atelier in via Sistina, debuttò nel 1951, a soli 21 anni. In antitesi al new look di Dior, il suo abito-scatola geometrico era una forma elaborata e cava da abitare.

Fibre sintetiche e high tech - abiti rivestiti in plastica trasparente ornati di plexiglass (oggi non si potrebbe, siamo plastic free). Come non si potrebbe accettare la pelliccia ovunque, presentata anche nelle collezioni estive - bolero di volpe argentata ed ermellino, cappe di talpa.

La costellazione di artisti-sarti romani è ricchissima: Maria Antonelli, la prima a fare una linea sportswear negli primi anni Sessanta, Simonetta Visconti, The Glamorous Countess adorata dagli americani, Carosa e Gabriella di Robilant. Renato Balestra, Rocco Barocco, Fausto Sarli. Questi furono i primi nomi a rendere famosa la moda romana nel mondo. L’espansione che la moda italiana conobbe negli anni Cinquanta e la sua definitiva affermazione sulla scena della couture internazionale non è semplicemente l’esportazione di uno stile, di una cultura materiale, ma l’espressione di una sensibilità e di una sapienza artigianale. Oggi la moda italiana è soprattutto a Milano – l’hardw
are – ma parte della sua sostanza, della sua linfa vitale, continua ad arrivare dalla capitale. Roma conserva la sua identità mista di haute couture e micro-realtà artigiane. Basta pensare ai designer più stimati del momento: Alessandro Michele che ha rilanciato Gucci - nato a Roma, viene dall’Accademia di Costume e Moda, voleva fare lo scenografo. Studia Roma, i suoi luoghi, il suo passato, le sue creazioni sono piene della sua città. Pier Paolo Piccioli ha dato nuova luce a Valentino – anche lui nato a Nettuno, Valentino fa parte della sua cultura, della sua storia. Una casa di alta moda significa persone, dice lo stilista. Significa approccio personale. E questo è importante ora come lo era negli anni Sessanta. Le sue parole sono sostanziate dal suo profilo Instagram: nelle sue Stories si vedono le sarte con i loro nomi, le loro mani e i loro strumenti. A Silvia Venturini Fendi e alla maison romana - l’ultima sfilata The Dawn of Romanity al Tempio di Venere ha restaurato e celebrato Roma nella sua eterna gloria, proprio rielaborando il fascino cinematografico della donna romana. Roma non riesce ad amministrare sempre al meglio la sostanza che la anima (tanta) ma ispira e passa la sua storia. Questa storia può essere presa e riportata in vita non come uno zombie o Frankenstein ma a nuova vita, inserendola nel contemporaneo, facendola tornare presente. È proprio nella contaminazione dei tempi che l’alta moda può continuare ad essere, a fiorire. E lo si può fare attraverso la formazione, tramandando il sapere, un sapere unico che rischia di andare perduto. Questa artigianalità, questi valori, sono custoditi dentro le stanze di realtà che vivono dagli albori della moda in Italia. L'Accademia di Costume e Moda di Roma è la culla di tutto questo, dove giovani designer sperimentano sulla loro pelle, fra le loro mani, passato e futuro, storia e ricerca. Anche gli stessi brand si fanno carico di insegnare ai propri designer e ad aspiranti stilisti il loro saper fare: Fendi, insieme all’Accademia Massoli, vuole formare una nuova generazione di artigiani specializzati. Il brand collabora con la Sartoria Massoli che oggi ha 34 dipendenti, dal 1982.

La contaminazione fra piccole realtà artigianali romane con brand di moda affermati è un'altra pratica virtuosa. Molti brand, fra i più famosi nel mondo della moda, trovano in queste micro-realtà radicate, antiche, un posto dove fare ricerca e trovare ispirazione. Le parrucche di Rocchetti&Rocchetti utilizzate per vetrine e campagne, i ricami di Niccoli, i guanti di Alberto Merola. Annamode e il suo archivio sterminato - il brand ha appena presentato anche una sua collezione primavera estate a Parigi e New York, collezione che reinventa capi d'archivio cinematografico. Cosa resta dell’alta moda italiana? Restano i mestieri che sopravvivono al mondo di cui erano espressione, lingua. Roma è la casa di questa lingua, resta un luogo che plasma, ispira, costruisce. L’alta moda non è morta, è eterna come la città in cui è nata. Si traduce nei valori che l’hanno creata e questa espressione, questo linguaggio, non aspetta altro che essere preso e messo in forma, di nuovo.